Alcuni miti sulla valutazione delle prestazioni
La valutazione periodica delle prestazioni del personale è uno dei processi più diffusi all’interno delle organizzazioni più evolute.
E’ anche una prassi “impopolare” per i manager per il tempo che richiede e per il livello di esposizione nei confronti dei collaboratori. C’è il rischio di “perdere la faccia” o di “far perdere la faccia” e questo per alcuni è fonte di imbarazzo.
Alcuni ne colgono prevalentemente le finalità di valutazione, premianti o sanzionatorie, perdendo di vista il fatto che il fine principale è quello di orientare lo sviluppo professionale delle persone e dare input ai percorsi formativi e di carriera.
Nel tempo le procedure e gli strumenti per la valutazione del personale si sono comunque evoluti e con essi si è anche evoluta la cultura interna.
Però non sempre c’è stata da parte delle organizzazioni la volontà di approfondire gli effetti che il sistema di valutazione delle prestazioni induce al loro interno, in termini di abitudini e di comportamenti che si stratificano nel lungo periodo.
Ciò ha originato alcuni miti sulla valutazione che nei fatti non trovano riscontro per chi si trova a svolgere questa attività come consulente in realtà di vario tipo.
Da questo punto di vista si nota il prevalere di alcune convinzioni di fondo (miti) che caratterizzano la valutazione delle prestazioni del personale:
- Mito n. 1 – La valutazione è un processo oggettivo. Nel tempo sono stati fatti grandi sforzi per rendere il processo più oggettivo possibile. I responsabili sono stati addestrati a valutare le persone in modo puntuale tenendo conto di tutte le variabili. Tuttavia è un dato di fatto che, per non correre il rischio di sbagliare e volendo evitare il rischio di conflittualità interne, l’impiegato medio viene solitamente valutato ad un valore più alto della media e le valutazioni basse e molto basse sono considerate eccezionali. C’è quindi un piccolissimo numero di persone considerate best performers, un esageratamente ampio numero di persone in fascia media ed un piccolissimo numero di valutazioni scarse. Questo sicuramente crea pochi problemi di convivenza tra manager e collaboratori ma non aiuta a fare chiarezza organizzativa.
- Mito n. 2 – Coloro che risultano best performers in un periodo lo saranno anche nel periodo successivo. Si tratta di un effetto alone che tende nel tempo a creare un gruppo di eletti non necessariamente supportato dai risultati. Le buone performances di un anno non sono necessariamente predittive di buone performances future. Analizzando le informazioni su vasta scala, si vede che solo un terzo delle valutazioni di un anno sono state confermate dai risultati dell’anno successivo. Ciononostante il gruppo delle persone considerate best performers tende a stabilizzarsi nel tempo anche a prescindere dai risultati.
- Mito n. 3 – La valutazione ha effetti limitati su retribuzioni e avanzamenti. In molte organizzazioni il personale ha l’impressione che il processo di valutazione sia un rituale fine a se stesso e che aumenti ed avanzamenti vengano decisi su altre basi. Ciò dipende invece proprio dal fatto che si tende a sopravvalutare un gruppo di cosiddetti best performers dando loro premi maggiori a discapito dell’ampia popolazione media. Seppure una polarizzazione dei premi sui best performers sia auspicabile, la tendenza (Mito 1) a valutare la media del personale in modo non stratificato ed a volte eccessivamente generoso non consente margini di manovra per premi che siano ritenuti incentivanti dal resto del personale.
Dalle precedenti osservazioni emerge quindi il rischio che la procedura di valutazione delle prestazioni gestita nei modi prospettati sia una sorta di “profezia che si autoavvera“, cioè confermi le convinzioni di partenza di tutti i soggetti coinvolti senza portare ad interrogarsi sul senso di ciò che si sta facendo.