La resistenza al cambiamento è uno dei fenomeni che più caratterizza lo svolgimento di un progetto ed in particolare i progetti di cambiamento e miglioramento organizzativo.
Con questa espressione si fa riferimento a quegli atteggiamenti, in parte consapevoli e in buona parte inconsci, che portano le persone e gli stakeholder impattati da un progetto a porsi in chiave antagonista rispetto agli obiettivi del progetto ostacolandone di fatto lo svolgimento.
Cambiare il modo di lavorare delle persone è un’impresa ardua perché si va a modificare abitudini consolidate e rafforzate col passare del tempo su cui, oltretutto, si è costruita una parte significativa della cultura e delle competenze di ciascuna organizzazione.
Del resto, le abitudini consentono di risparmiare energie mentali e riducono lo stress quotidiano. In tal senso è umano cercare di mantenerle. Diventano invece un fattore penalizzante quando mantengono in vita schemi non più validi, superati dal tempo oppure che non consentono più di rispondere alle esigenze per cui erano stati costruiti.
Le cause della resistenza al cambiamento
Alla luce delle precedenti considerazioni, può essere utile analizzare cosa si nasconde dietro la resistenza al cambiamento in modo da individuare poi le modalità per cercare di superarla:
- Il rischio di attuare un cambiamento è visto come maggiore del rischio di restare fermi. Mettere in atto un cambiamento richiede una sorta di atto di fede: si decide di muoversi in una direzione ignota con la promessa che questo porterà ad un miglioramento. Ma non ci sono elementi di certezza. Le persone sentono che basarsi solo su un atto di fede è per loro rischioso. In questa prospettiva, occorre sviluppare una onesta analisi dei rischi e presentarne i risultati agli stakeholder in modo oggettivo basato su numeri e fatti.
- Le persone si sentono di far parte di un gruppo che si identifica con un certo modo di pensare e lavorare. Gli individui sono esseri sociali e tendono ad identificarsi con il lavoro che svolgono nel modo in cui lo svolgono. Questo li porta a stringere un legame anche affettivo con quello che fanno e con le persone che collaborano con loro. Non si può da un giorno all’altro dire che quello che fanno non va bene e che occorre cambiare. E’ necessaria un pò di diplomazia e di tatto nel porgere la questione. Anche in questo caso è opportuno rappresentare la situazione in termini analitici in modo che le persone stesse abbiano gli elementi per trarne le loro conclusioni.
- Le persone non riescono ad immaginare il loro ruolo una volta attuati i cambiamenti. Questo fatto può generare timore di perdita di identità o di posizione organizzativa. E’ importante che il modello organizzativo cui si vuole arrivare sia esplicitato in modo che ciascuno possa ritrovare il proprio ruolo, magari diverso dal passato ma ugualmente significativo. Se non si precisano i meccanismi operativi del nuovo modello c’è il rischio di essere visti come visionari lontani dalla realtà e che sorgano obiezioni del tipo “Non si può fare” mentre invece occorre sviluppare collaborazione sul come farlo.
- Le persone hanno il timore di non avere le competenze per gestire il nuovo ruolo. Si tratta di un timore che gli individui raramente ammettono. E’ quindi difficile intercettarlo nell’ambito di riunioni e colloqui. Occorre comunque tenerlo presente perché agisce in sottofondo ed è pericoloso affrontarlo frontalmente. E’ quindi necessario predisporre per tempo un adeguato programma di formazione e ove richiesto di riconversione professionale. E’ probabile che nel far questo si venga accusati di disperdere preziose competenze e saperi sviluppati nel tempo. Ma occorre comunque farsene una ragione.
- Le persone si sentono affaticate ed in alcuni casi sopraffatte dall’esigenza di cambiamento. Questo ha a che vedere con le abitudini lavorative. Una volta che un certo modo di lavorare è stato metabolizzato, ciò favorisce gli automatismi, il risparmio di energie e l’abbassamento del livello di stress. Ogni cambiamento o novità mette tutto ciò a repentaglio e sentiamo istintivamente di doverci opporre. E’ quindi opportuno che ogni cambiamento venga introdotto con gradualità, in modo da consentire alle persone di metabolizzarne i contenuti ed apprezzarne man mano i benefici.
- Le persone sono per lo più scettiche rispetto alle novità. Hanno bisogno che gli obiettivi attesi siano eclatanti, altrimenti non si attivano, tendono a mandare avanti gli altri. Se invece comprendono che l’iniziativa rischia di avere successo comportando delle opportunità per chi vi partecipa, allora fanno in modo di essere arruolati al più presto. E’ quindi importante che venga presentato il quadro dei benefici attesi e delle opportunità per chi collabora nel processo di cambiamento.
- Gli esseri umani sono per istinto conservatori. Questo fatto è il prodotto dell’evoluzione della specie. Anche le persone più convinte e mature sanno che partecipando ad un’iniziativa di cambiamento è probabile che si ritrovino contro buona parte del resto dell’organizzazione. E questo fatto intimorisce e può portare a defilarsi. In questo è importante l’atteggiamento del management che dovrebbe per primo manifestare la sua motivazione e determinazione nel perseguire il cambiamento.
- Alcune persone, in assenza delle precedenti motivazioni, possono in buona fede essere proprio convinte che il cambiamento proposto non possa funzionare. Questo è il gruppo più interessante perché può dare un contributo determinante se attivamente coinvolto nella fase di progettazione. Buona parte di queste convinzioni sono riferite al modo con cui è stato pensato il cambiamento e non all’opportunità del cambiamento stesso. Quindi coinvolgere queste persone nel definire le modalità da implementare costituisce un primo passo verso il successo e l’acquisizione del consenso da parte del resto dell’organizzazione.